Secondo il Leone Mansell la F1 mitica degli eroi, dei guerrieri capaci di gettare il cuore oltre l’ostacolo è terminata da un pezzo.
In effetti non si può dare torto a Nigel Mansell. Il Circus odierno è popolato perlopiù da ragazzini cresciuti tra videogame e playstation varie, lontani anni luce dallo svezzamento di quelli di un tempo che mangiavo pane e meccanica a colazione, pranzo e cena. Non fosse per l’attenzione mediatica, nettamente superiore a quella degli anni d’oro della massima serie, il compito che spetta ai driver contemporanei è nettamente meno pesante sia mentalmente, sia fisicamente.
In fin dei conti è ancora viva nella memoria di tutti gli appassionati di auto l’immagine dei campionissimi che scendevano dalle loro monoposto con le mani piagate, dalle cambiate infinite su circuiti che toglievano il respiro. Ormai invece l’abitudine è vedere i protagonisti scendere dalle loro macchine al termine di un GP, freschi e pronti per correrne un altro.
“In passato ci sono stati molti driver brillanti che a causa di un piccolo incidente si sono rotti gambe, braccia e magari non hanno più potuto continuare la professione. Adesso invece un errore anche grave non comporta nulla e nessuno si fa male. A malapena sudano e quando escono dall’auto è come se fossero appena stati dal parrucchiere”, ha sostenuto, con ragione, il Baffo britannico al Daily Mail.
Per fortuna nostra dopo il crash che nel 1994 costò la vita ad Ayrton Senna, soltanto Jules Bianchi nel 2014 (ndr. il francese è deceduto nel luglio 2015 dopo diversi mesi di coma) e Anthoine Hubert nel 2019, sono morti in un contesto di competizioni automobilistiche. Un vero miracolo come sa bene il 66enne.
“A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 se riuscivi a completare 180 corse ed essere ancora vivo dovevi darti una pacca sulla spalla e congratularti con te stesso per la bella carriera”, l’amara riflessione conclusiva.
Chiara Rainis
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