L’insulto di Verstappen a Stroll durante il GP del Portogallo fa scuola. Chiesta la rimozione dal vocabolario.
Aveva scatenato da subito polemiche e censure quel “mongolo” gridato da Verstappen via radio ad indirizzo di Lance Stroll nel corso delle prove libere 2 del Portogallo, a seguito di un contatto alla curva 1.
In tanti, compreso l’ambasciatore della Mongolia delle Nazioni Unite Lundeg Purevsuren aveva domandato al pilota Red Bull pubbliche scuse (ndr. arrivate seppur in maniera blanda), scrivendo addirittura alla FIA di intervenire contro l’olandese autore di un atto “razzista e dispregiativo”.
Sebbene siano ormai passati diversi mesi dal fattaccio, l’associazione Mongol Identity non lo ha dimenticato e in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione, ha suggerito la rimozione dai dizionari dell’insulto di Max dalla voce “Mongolo”.
“Dalla risposta dei social network risulta chiaro che non si comprende quanto l’accezione utilizzata sia offensiva. Per alcuni è solamente sinonimo di idiota o affetto da sindrome di Down”, si legge sulla nota pubblicata dall’ente.
Scientificamente parlando la questione ha avuto origine da John Langdon Down, medico inglese vissuto nell’800 che per primo scoprì la nota malattia genetica. Osservando i suoi pazienti, notò una somiglianza con gli abitanti della Mongolia. Per questo si iniziò a parlare “mongoloidismo”. In uso fino al 1965, il termine venne poi dichiarato discriminatorio.
Dunque, con l’obiettivo di sgombrare il campo da ogni dubbio e limitare la parola “mongolo” ad abitante della Mongolia, l’autore e direttore di Mongol Identity Uuganaa Ramsay ha chiesto la cancellazione dai dizionari del significato peggiorativo. “Vorremmo che gli editori riflettessero su cosa inseriscono. Ad esempio, se il vocabolario è indirizzato agli stranieri, è davvero necessario includere tra le definizioni quella offensiva riguardo la stupidità o quella arcaica come l’essere affetto da Sindrome di Down?”, l’interrogativo dello studioso.
A chi si occupa di queste pubblicazioni l’ardua sentenza.
Chiara Rainis
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